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Il crac dell’impero di Jamie Oliver

Un sintomo della disaffezione verso le catene di ristoranti.

Non è una notizia di poco momento. L’improvvisa chiusura, in un sol colpo, di 23 ristoranti della catena di Jamie Oliver in Gran Bretagna, con 1.000 dipendenti a casa e conseguente messa in amministrazione controllata, potrebbe sembrare di non molto interesse per l’Italia e per la sua cucina in generale. Jamie Oliver, oggi, ha 44 anni ma quando ne aveva appena 20 era già famoso in tutto il mondo. È stato il primo cuoco, originario di uno sperduto paesino dell’Essex, a divenire una star televisiva. Aveva creato dal nulla una catena di 25 ristoranti e una di negozi di gastronomia; pubblicava una seguita rivista mensile di cucina (Jamie magazine); scriveva libri di ricette e conduceva un apprezzato programma televisivo con corsi di cucina. Nel periodo d’oro, aveva oltre 3.000 dipendenti e un fatturato di circa 260 milioni di euro.
A noi interessa in modo particolare perché, nel 2008, aveva lanciato la catena Jamie’s Italian con l’intenzione di cambiare la ristorazione in Inghilterra con ottimi ingredienti (al posto del fish and chips), cucina mediterranea e olio d’oliva. Aveva lodevolmente puntato, dunque, sulla cucina di casa nostra, forse pseudo-italiana ma pur sempre a vantaggio del nostro Paese. Tuttavia, qualcosa, con ogni evidenza, non ha funzionato. Sullo sfondo, una crisi strutturale che ha colpito la ristorazione britannica (fra gli altri l’antesignano Carluccio’s), forse le preoccupazioni economiche per la Brexit, forse l’aumento degli affitti, i costi degli ingredienti, la concorrenza di altre catene. La realtà è che i tempi sono cambiati: la catena dove si mangia all’italiana, talvolta maluccio e a prezzi non proprio bassi, trova oggi concorrenti agguerriti nei moltissimi ristoranti italiani presenti a Londra, dalle trattorie alle pizzerie, dai ristoranti di buon livello agli stellati. Insomma, un’offerta che 10 anni fa non esisteva.
È soprattutto il concetto di catena garantita da un nome che oggi non trova una favorevole accoglienza di pubblico. Oliver aveva ristoranti di proprietà, mentre ora vanno per la maggiore locali in franchising. Spendendo cifre molto variabili, a seconda dell’importanza del marchio (si va dai 20 mila ai 200 mila euro), si possono aprire ristoranti con il nome del franchisor. Si debbono seguire linee guida molto stringenti in fatto di arredamento, abbigliamento del personale, piatti proposti; di solito anche gli acquisti delle materie prime sono obbligati; poi si pagano delle royalties ai titolari del marchio. Talvolta funziona, altre volte no. Funziona nel fast food, ma non nella ristorazione di qualità. Proprio il sistema in sé porta a un appiattimento della qualità media della proposta, porta alla standardizzazione, che è il contrario di quello che si cerca in un ristorante dove si va non solo per sfamarsi ma per provare emozioni e trovare nuove entusiasmanti proposte. Già guardiamo con sospetto ai numerosi ristoranti aperti dal celebrity-chef del momento, dove il personaggio di solito è poco reale e molto virtuale, figurarsi il giudizio sulle catene di ristoranti, meri mangifici di medio valore.

Paolo Petroni
Presidente dell'Accademia
 

Giugno 2019